Sinceramente non so quanto altri giocatori abbiano avuto la stessa sensazione, ma personalmente di Shenmue la cosa che mi colpisce è il cielo. Cielo ombroso, stellato, sereno, nuvoloso, piovoso, così come è il mutevole universo concepito da Suzuki ormai quasi due decenni fa.
Non c’è ambiente del gioco in cui non abbia volto, da giovane sognante quale ero, lo sguardo a un corpo celeste, a una nuvola o semplicemente un azzurro puro.
Non da solo, chiaramente, ma combinato con i tetti dei palazzi delle varie ambientazioni presenti, in una strada commerciale, in un vicoletto, vicino a un parco, o per le strade affollate e piene di insegne di Hong Kong.
Perché sebbene il capolavoro di Suzuki cominci nella piccola Yokosuka giapponese, che l’anima della serie sia la Cina è cosa nota a tutti.
La parte intima, profonda di Shenmue è lì, dopo quella traversata in mare durata una ventina di giorni, in quel porto rozzo, prima di Aberdeen, dove più si vedono i segni del colonialismo britannico, in quel 1987 ancora vivo e vegeto e che – si dice – qualcuno laggiù ogni tanto rimpiange addirittura.
La sensazione di immensità, di esplorazione praticamente infinita, le routine perfette di decine, anzi di centinaia di persone incontrate per le strade è ciò che rimane ancora vivo di un’opera mastodontica, perfino a quasi 20 anni dalla sua uscita originale su Dreamcast…
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